lunedì 7 luglio 2014

Sydney.

La stazione del treno è grande ma non grandissima. Niente a che vedere con la Gare de Lyon, la Victoria Rail Station, Roma Termini. E uscendo in strada non ti da la sensazione che ti da New York, quando dopo ore sotto terra, tra la navetta e la metropolitana, sbuchi nel cuore di Manhattan e ti manca il fiato per l’altitudine che l’architettura ha saputo raggiungere. Però ero felice, felice di essere libera, al sicura, in una nuova avventura tutta da decidere.
Sydney non è subito bellissima, ci mette un po’. Devi aspettare il momento giusto, che prima o poi arriverà. Io l’ho amata tra un locale a l’altro con lo spirito di chi si è perso, incontrando qualcuno con cui fare i bagordi, e in una sera d’autunno, negli occhi blu di un francese, tra vino bianco, Truffaut ed enjambment.
Quello che ti salta subito all’occhio di Sydney sono i soldi. Che sono diversi dalla ricchezza. Ricche sono Roma, Parigi, Londra. A Sydney ci sono i soldi. Gli uomini di Sydney non ci sono a Melbourne. Vestono camicie eleganti, girano rigorosamente in completo. Pochi hipsters, al contrario di Melbourne. Discutono fitto al Queen Victoria Building con i palmari e i cappuccini sul tavolo. Sono bellissimi e intoccabili, troppo impegnati per curarsi delle donne e dei turisti che vagolano per le scale mobili in cerca del bagno.
I bagni. Potrei aprire un capitolo solo sui bagni in giro per Sydney. Quello del Queen Victoria Building – che scusate non ho detto, è un edificio liberty del tardo Diciannovesimo secolo che ospita negozi raffinati e cafè all’ultima moda – ha il pavimento piastrellato bianco e nero, i rubinetti in ottone, un’infilata di specchi sospesi al centro della stanza. Ne ho visti altri degni di nota in club panoramici in cima a The Rocks, ma questo accadrà in futuro, in compagnia degli occhi blu d’oltrape.
Per il momento arrivo all’ostello consigliato dalla Lonely Planet e mi danno una camera con sei letti a castello. Due inglesi, una tedesca, un asiatico. Arriverà poi un’americana che non uscirà mai dalla stanza, un’australiana alcolista e un brasiliano che una mattina troverò schiantato sul letto con le braghe calate giù.
Primo giorno voglio rilassarmi, mi dico, non mi va di angosciarmi subito con la ricerca del lavoro. Mi faccio un giretto qua intorno, tanto per farmi un’idea. Sydney, per chi non avesse idea, assomiglia alle fauci di un mostro visto di profilo. Il cuore della City, in un certo senso, è sul canino dell’arcata inferiore e intorno si impetalano gli altri quartieri. Il cuore della City, inteso come la zona che va oltre la Central Station e comprende Pitt St. e George St., non è un gran che. È pieno di backpaker, locali per backpaker, negozi, centri commerciali sotterranei (come a Melbourne ma molti di più e più grandi). A parte l’Opera House, i giardini botanici, ho amato molto i quartieri residenziali di Surry Hills e di Ultimo, Redfern, le case dei pescatori di fine Ottocento restaurate, bagante dal mare. The Rock è molto, molto carina, fai le scalette e arrivi in alto. Ci sono i locali più sciccosi e, devo dire, Sydney è una città che ti godi davvero se puoi spendere, a meno che di fare l’incontro giusto, o a meno che di partecipare alle serate per i backpaker dove paghi $20 per bere a sfondo in quattro locali diversi, c’è un gioco da fare di solito e chi vince va in vacanza gratis da qualche parte.
Ad ogni modo, quel primo giorno mi sento molto sola. Vado a letto presto, perché non so dove andare, perché ho voglia di sentirmi al sicuro. Marco, il ragazzo italiano che faceva le pizze e il dj, con cui ero stata a letto una delle ultime sere prima di partire, mi scrive ogni sera un messaggio e mi è di gran conforto, mi sento coccolata. La seconda notte però penso che devo assolutamente trovare una festa.
Sapete come funzionano molti ostelli, hanno la cucina e tu cucini. Compro il minimo indispensabile, il pane, due pomodori, le uova, due scatolette di tonno e il caffè solubile che mi devono bastare per l’intera settimana. L’acqua una bottiglietta che è sempre quella che riempio dal rubinetto e che fa schifo, ma qua l’acqua costa una follia, è carissima, come il gelato e la cocaina. Meglio l’acqua del rubinetto e la meth. Gli ultimi giorni avrò un’acidità di stomaco che non vi sto a raccontare. Finisco di cenare e mi piazzo in uno dei tavolini per farmi preda. I ragazzi dell’ostello stanno facendo un gioco e alla domanda “what is the Fandango?” io rispondo che è una danza. La squadra vicino mi fa cenno di partecipare.
Durante e dopo il gioco ci beviamo litri di vino in cartone, un misto tra Tavernello e tisana ai frutti di bosco. Poi si esce, maratona nei locali, si beve gratis. Età media 22, 23 anni. Dopo un po’ che prendo confidenza con il gruppo sfoggio i miei soliti numeri da cabaret: danze di ogni tipo, mischiando cultura, abilità e simpatia – l’ho detta come Caterina Balivo –, fischio. Lo so, è il solito repertorio di scemenze, mi sembro quei bontemponi di cinquant’anni che si sono giocati le stesse battute per una vita, ma tanto nessuno dei presenti m’ha mai visto e mai mi rivedrà più e ognuno, come da manuale, resterà piacevolmente sorpreso.
Sono anche come al solito vestita male e, sempre come al solito, in pochi minuti sono accerchiata dai maschietti. Eh, lo so. Trent’anni vorranno dire qualcosa, o no? Consapevolezza del proprio corpo, nessun tipo di dramma, ammiccare con leggerezza, e fine. Che poi è per scherzare e basta. Una ragazza che era con me si era però avvilita moltissimo. Si era agghindata con dovizia, avrà avuto sì e no vent’anni, florida e carina. Doveva sedurre qualcuno a ogni costo o sarebbe crollata psicologicamente quella sera. Si annaffia ripetutamente con una schifezza di gin e Redbull, quando non ce la fa più si bacia il primo che le passa davanti, poi molla e torna in ostello con le altre ragazze. Mi chiedono se voglio rientrare anche io. Non ne ho molta voglia a dire il vero. Mi volto per vedere chi c’è rimasto: solo due ragazzi svedesi.
Resto.
Siamo in tre, e l’atmosfera è pacifica e rilassata. Siamo in strada, siamo stanchi e abbiamo fame. Mi piace andare in giro con i ragazzi, non gliene frega niente. Le ragazze, specie se non le conosci bene, ti richiedono uno sforzo di delicatezza.
Non ricordo i loro nomi, ce li ho su facebook ma non ci siamo mai sentiti. Uno, Jorg (per dire), è alto, di bell’aspetto, ha la mia età e fa il ballerino di danza classica. Non ha niente dei ballerini di danza classica, assomiglia invece in sacco a Lorenzo Lamas, quello di Renegade. L’altro, Jirk (sempre per dire), basso, moro, tratti mediorientali. Lo guardo bene, non mi sbaglio.
«Sei iraniano?»
Gli canto Jane Marian, che mi avevano insegnato Sarah e Neda quando vivevo a Milano e loro erano in Italia per studiare una architettura, l’altra disegno industriale. E anche Jane Marian la ripropongo sempre ogni qual volta incontro persiani lungo il mio cammino.
Lui mi dice, Oh my God, I’m fall in love with you. Mi prende sotto braccio e torniamo in ostello tutti e tre insieme.

Il giorno dopo mi sveglio abbastanza presto e dopo la colazione mi dirigo per la biblioteca.
Questa è bella.
Incontro la ragazza inglese della sera prima che vedendomi sembra a disagio, ma io non me ne curo anche perché per quel che mi riguarda non ce n’è motivo. Lei mi dice che sta cercando lavoro, io che ancora non ho deciso cosa fare, comunque in teoria uguale.

Cammina, cammina, un cameramen, una giornalista con il microfono in mano. Si guardano intorno rapidi per pesacare qualcuno da intervistare. Incrociano i miei occhi e non posso fare a meno di fare un gran sorriso. La ragazza inglese se ne va, non vuole partecipare. Ahahah! Certo, solo a me può capitare qualcosa di simile. Come mi dirà poi Giuliano, Baldi a te capita in un giorno quello che a uno normale capita in un anno. Insomma, finisce che mi intervistano. Mi chiedono se soffro di mal di testa, quando mi viene e come me lo tolgo. Io mi figuro subito che magari lo Scozzese mi vede in televisione e si fa una risata. A parte lui, rispondo da gran signora che il mal di testa ce l’ho se mischio vino e birra, e che per farmelo passare mi prendo una pasticca e via.

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