giovedì 10 settembre 2015

Volerei da me da Roma fino New Delhi, passando da Sydney giusto un attimo

Vi avevo lasciato nel bel mezzo dei racconti di Vamana Valley, il resort gestito dagli hare krisna, mentre in tempo reale salutavo Sydney in partenza per Ho Chi Minh. Mi sembra ieri, eppure è passato un anno.
Di cose ne sono accadute un’infinità, raccontarle tutte ora mi è difficile, non tanto per la memoria, ma emotivamente parlando. Philipp e io abbiamo avuto una storia di circa un paio di mesi. Non mi sento responsabile del suo abbandono dei voti religiosi, credo di essere stata una buona persona con cui si è confrontato in un momento cruciale della sua vita, tutto qui. Vamana Valley era circondata dal verde, un verde simile allo sfondo usato per i fotomontaggi in postproduzione, dove gli attori recitano su un fondale monocromatico e l’ambientazione viene aggiunta a posteriori. Eravamo lontani dal mondo, da tutti, da noi stessi non lo so.
Ci eravamo baciati una sera. Io ero sbronza e un po’ su di giri. Non potevamo fare uso di alcolici, Vamana Valley era una comunità religiosa, bisognava dunque astenersi da fumo, alcool e sesso all’interno del resort. Ovviamente fuori potevi fare ciò che volevi.
Quella sera io e altri due ci eravamo presi la giornata libera, quindi eravamo andati col treno a Woolongong. Avevamo fatto amicizia con due tizi che avevano staccato dal lavoro. Tra birre e sigarette, uno di loro tira fuori la carta di credito e una banconota da dieci dollari. Eravamo seduti in terrazza, praticamente sulla strada, ma nessuno di loro si è preoccupato di doversi nascondere in bagno.
Torniamo che è notte fonda. Philipp era disteso sul prato avvolto in una tunica bianca. Mi distendo accanto a lui. Guardiamo le stelle. Mi dice che è molto più piacevole condividere il cielo con qualcun altro. Poi mi bacia.
I giorni seguenti giochiamo al gatto e al topo, occhiate complici e baci rubati non appena restiamo soli. La prima notte che abbiamo dormito insieme lui aveva pianificato tutto nei dettagli. C’era la suite, la camera più bella ed elegante del resort, con la parete a vetro scorrevole che si affacciava sul bosco, il bagno in camera e le lenzuola migliori. Philipp aveva le chiavi. Se lo beccavano non oso immaginare cosa sarebbe accaduto. Si era rasato a zero e aveva lasciato Amburgo a 17 anni per Krisna e il Sud Africa, a 23 anni era evidentemente ancora abbastanza sveglio e incosciente per riscoprire il sesso dopo cinque anni di voto.
Le volte successive prendevamo la Volkswagen e andavamo sulla spiaggia. Dovevamo stare sempre attenti che non ci scoprissero. Parlavamo tanto e ascoltavamo i brani di un pianista portoghese. Suonava il pianoforte, mi faceva entrare nella sua stanza e ascoltare le sue tracce mp3. Per qualche giorno abbiamo pensato di fuggire tutti e due in Thailandia o di proseguire il viaggio insieme. Il suo visto religioso sarebbe scaduto a breve e lui doveva decidere se estenderlo per restare o interromperlo per ritornare a Rotterdam e ricominciare daccapo. Facevo lunghe passeggiate in solitaria, cantavo per non pensarci. Se restava avrei avuto altro tempo con lui, se tornava a casa addio voti e forse, in un futuro, ci saremmo potuti reincontrare. Una notte avevamo ottanta ospiti e non esisteva stanza per stare insieme. Ci lasciamo inghiottire dall’oscurità sotto una pioggia estiva senza tregua. È stato lì che abbiamo pensato alla Thailandia o di proseguire a nord est, verso Darwin, passando per Brisbane e la Gold Coast. Un gruppo di cervi ci passa accanto in quel momento: pensiamo entrambi a un segno o a una benedizione.
Quando è partito non sono andata a salutarlo perché ero troppo arrabbiata e gelosa. Sapevo che mi aspettava. Era andata bene così. Avevo ancora davanti sei mesi di viaggio, non me la sentivo di viaggiare in coppia, volevo consumarmi i giorni allo sbaraglio, senza vincoli né preoccupazioni verso qualcun altro. Lui si era spaventato e io lo stesso. Più i nostri incontri erano intensi più il giorno seguente il precipizio si allargava. Avrei voluto accoglierlo ma non ne ero in grado. Credo lo stesso sia capitato a lui.
Non potevo credere che mi avesse telefonato dall’aeroporto. Ero in estasi. Voleva salutarmi e augurarmi buona fortuna.

Qualche settimana dopo decido di lasciare Vamana Valley e mi trasferisco a Cronulla, una cittadina sul mare a un’ora di treno da Sydney. Facevo la lavapiatti in una café vegano e leggevo i tarocchi. Sono abbastanza fortunata da trovare immediatamente casa, così, qualche settimana dopo aver trovato lavoro, mi trasfersico nell’appartamento di una mia collega. Si chiama Sarah, capelli rossi, 36 anni. È una ragazza madre. Devono esserci stati dei problemi, suo figlio non viveva con lei ma con il padre a Perth. Soffre di forti depressioni ed è convinta che tutto il mondo voglia fregarla. Suo fratello è eroinomane, entra e esce dalla comunità, suo padre un uomo che sembra molto buono ed estremamente fragile, sua madre, stando ai racconti di Sarah, un’anaffettiva sociopatica che salta da un partner all’altro. L’appartamento di Sarah è bellissimo. Ha molto gusto ed è molto pulita. Non ha amici, per cui passiamo un sacco di tempo insieme. Il venerdì sera ci prendiamo un dvd nella videoteca in fondo alla via. Parliamo un sacco e grazie a lei il mio inglese è migliorato.
Sa che adoro scrivere. Una sera mi propone di seguirla fino Sydney a un incontro di scrittura creativa.
-“Non è proprio scrittura creativa... è una scrittura creativa ‘spirituale’...”.
Va bene, le dico, non c’è problema, ogni cosa nuova è interessante. Lungo il tragitto in macchina mi confida che in realtà si tratta di un incorntro di preghiera. La cosa mi diverte, è proprio fuori questa, mi dico, ad ogni modo imparerò qualcosa.
La chiesa non è cattolica. Le chiedo se è anglicana o protestante ma Sarah non mi sa rispondere. C’è un impianto montato sull’altare con casse stratosferiche, chitarre elettriche e batteria. Sembra l’allestimento di un concerto rock. Lì sotto ci sono delle sedie disposte a ferro di cavallo con delle persone. Non avevano l’aria del tutto equilibrata, ma sorvoliamo. Al centro, una donna dai lunghi capelli biondi, i Camperos e le dita inanellate si scalda la voce al microfono intanto che distribuisce fotocopie con versi e letture. Parla per circa un’ora di temi quali la famiglia, la società e l’amore di Dio. Poi ci fa alzare tutti in piedi. “Chiudete gli occhi e respirate”, ci dice. L’esercizio assomigliava al rilassamento del training autogeno. Poi ad un tratto chiede chi di noi riesce a sentire le Presenze.
WTF! Guardo Sarah per chiederle spiegazioni. Alcune persone si avvicinano all’altare e cominciano ad urlare. Una signora piccola e grassa ride e si accascia per terra. Un’altra, completamente in trance, viene toccata dalla sacerdotessa sulla spalla e comincia anche lei a contorcersi e a dimenarsi. Il tutto è andato avanti per un’altra ora. Incitavo Sarah a farsi toccare anche lei per vedere che succedeva, ma mi ha detto di no. Ce ne andiamo noi alla fine, con le urla, i gemiti e le risa isteriche che restavano alle nostre spalle.
Sarah ha continuato ad andare agli incontri per circa due volte poi ha abbandonato. Alla fine, lei cercava solo un uomo di cui innamorarsi e che prima o poi la sposasse. Mi aveva raccontato che Chris, il ragazzo avuto per un certo periodo, beveva e la picchiava. Non voleva poi che suo figlio Antony di 8 anni al mattino si intrufolasse nel letto di sua madre. Poi un giorno è fuggita di casa. Così era finita con Chris. Brad, il padre di Antony, dai racconti di Sarah, non doveva essere troppo male, nel senso che almeno era presente e non le alzava le mani. Lei non voleva comunque starci, non le piaceva troppo, anzi, lei all’inizio era innamorata del suo amico, ma poi le cose sono andate così. Era rimasta in cinta per sbaglio. Mi ha detto che per quanto ama suo figlio Antony, se tornasse indietro probabilmente oggi farebbe scelte diverse. Si guardava allo specchio e si vedeva brutta e vecchia. Non guadagnava molto ma ogni tanto si sottoponeva a iniezioni di botox sugli zigomi e agli angoli della bocca.
In certi momenti la convivenza con lei è stata dura, ma le ho voluto molto bene. Mi ha trattato con i guanti e pagavo la mia stanza una miseria. Lei non voleva vivere da sola.
L’ultimo episodio che voglio ricordare di Sydney riguarda Simona e quando ha preso un volo per venirmi a trovare. Oltre ad amarla profondamente, insieme ci divertiamo sempre da morire. La prima sera lei aveva fatto couchsurfing da un tipo che alla fine ci ha provato. L’avevo conosciuto anche io. Ci eravamo dati appuntamento al Sydney Opera House, in un posto con ristoranti e bar per aperitivi sul porto con gruppi musicali che si esibiscono. La sera dopo, stesso posto, ma solo io e Simona. Lei mentre aspettava che arrivassi da Cronulla aveva conosciuto due ragazzi. Mentre cammino tra i tavoli per cercarla, un ragazzo con due bellissimi occhi blu mi chiama per nome.
Simona era andata in bagno e infatti la vedo arrivare poco dopo. Lui si chiama Pier, francese. Dice che nella vita lui è ricco e che non ha bisogno di lavorare. Alan, il suo amico, è archeologo ed è originario di Sydney. Pier era catapultato a Sydney per amore. Aveva conosciuto una ragazza australiana in Francia e l’aveva seguita, poi le cose erano andate male. Diceva di fare lo scrittore. Di cazzate ne aveva dette parecchie ma era molto brillante e piacevole. Aveva 26 anni e di sicuro uno stuolo di ammiratrici appresso. Dopo un po’ che parliamo le coppie si formano, Alan con Simona, io con Pier. Finiamo la seconda bottiglia di vino.
Andiamo insieme in locali chiccosi in cui non avrei mai lontanamente pensato di poter mettere piede. Loro certo erano molto benestanti e ci avevano offerto praticamente tutto. Era un sogno. Al posto della zucca avrei gradito una doccia e degli abiti più eleganti. Invece avevo appena staccato dal lavoro ed ero con la mia inseparabile giacca a vento presa alla Decathlon.
A fine serata andiamo a casa di Pier. Poco dopo Alan e Simona si spellano dai baci. Io e Pier siamo sul divano. Dopo un po’ mi fa segno di sedermi accanto a lui. Restiamo così abbracciati finché non viene un freddo cane e ci spostiamo in camera da letto per ficcarci sotto le coperte. Simona era con Alan a casa sua. Mi sarebbe venuta a prendere con il taxi alle cinque del mattino per tornare a Cronulla e dunque ripartire per Adelaide. Con Pier ci salutiamo velocemente, si sistema la camicia nei pantaloni, un abbraccio e nice to meet you.
Io e Pier non ci siamo più visti né sentiti. So che ultimamente aveva trovato lavoro a Budapest ma che non gli piace affatto. L’ho saputo da Simona che invece con Alan ha fatto sul serio per un po’. Sembrava la storia della vita. Simona ha passato l’estate in barca a vela, lavorando come cuoca in attesa di notizie dal Phd. Ci siamo incontrate ieri, qui a Pesaro, sta una favola.




lunedì 4 agosto 2014

Glielo dico o non glielo dico?

Di solito mi consiglio con le amiche prima di fare scelte di una certa mole. Mi sa che ne avevo parlato solo con mio padre. È che mi ero svegliata una mattina, dopo l’ennesimo sogno che si ripeteva. Anche io, in un certo senso, avevo sentito la chiamata, come Philipp, forse. Mia mamma mi ha insegnato che l’ultima parola va lasciata al cuore, che specie su certe cose è inutile pensarci troppo, che se il pensiero si ingolfa come una Panda non ti porta da nessuna parte. E come glielo dico?
Scrivendo, naturalmente. Anche se in realtà mi sarebbe piaciuto farlo di persona, ma quando? Giuliano mi aveva detto che sarebbe venuto a trovarmi ad aprile, ma vai a capire. Si era spostato a Cairn nel frattempo, aveva trovato lavoro in un ristorante, una cosa del genere. Il sogno, il sogno dunque. Era un po’ che a lui ci pensavo di meno e allora ecco che ovviamente me lo sogno, un bloody sogno dove io e lui siamo una cosa sola, dove non c’è bisogno di dire niente. E infiniti baci, e mille carezze.
Se ci pensate, ogni volta che ci si innamora ci si innamora di noi. In breve, ho sempre visto l’amore come una specie di Tesi-Antitesi-Sintesi, dove noi siamo la Tesi, l’altro è l’Antitesi e la Sintesi è quel che resta di noi dopo l’Antitesi. L’Antitesi ci parla di noi con un altro linguaggio, come le favole con i bambini. Giuliano era l’orco, era il lupo, il buco nero che se provi a guardarci dentro forse non fa più tanta paura.
E perché tocca a innamorarsi?
Perché l'amore è l'unica energia che rompe certe resistenze, come l'acqua calda rompe più facilmente le molecole di grasso dell'acqua fredda.

«Ma sei seria? Stai dicendo davvero?»
Mi fa lui. Non era importante che lui ricambiasse, cioè sì, ma non era quello il fine, oddio, in parte! Io lo sapevo che mi voleva bene. Speravo solo non se l'avesse presa. Che ne so, non si sa mai. E che diavolo, alla fine gli avevo solo detto che a forza di ragni sulle pareti e buchi nei calzini mi ero innamorata di lui.

«Tu sei scema proprio.»
Questa Simona, la mia amica.
«Se uno mi scrivesse una cosa del genere, io manco gli risponderei.»
«Lui la mia fantasia la capisce…»
«Ad ogni modo, se non si fa vivo per un po’ non ci rimanere male.»
«Addirittura? Oh, cielo. Vabbè, speriamo non l’abbia presa tanto tragicamente.»
Qualcuno bussa alla porta della mia camera. È Philipp.
«Posso entrare?»
«Certo, come posso aiutarti?», lo guardo pronta a ricevere un’informazione rapida e veloce, ancora con l’auricolare alle orecchie.
«Così, ero passato a trovarti… hai dato un’occhiata al libro che ti ho dato?»
«Uh. Certo. Sì, scusa, entra pure, Simocisentiamodopo.»
Dentro la mia camera sembrava una giraffa. Ah, già, non l’ho detto, Philipp nel frattempo mi aveva assegnato un’altra camera visto che sarei rimasta per parecchio tempo, una doppia-quasi-singola perchè l’altra ragazza, Paula, veniva solo pochi giorni a settimana.
«Come stai?»
«Bene, alla grande.»
«Come ti sembra la nuova stanza? Carina vero?»
«È favolosa, davvero, grazie infinite. Ho un tavolo tutto mio, finalmente, non potevi farmi regalo più grande!»
«Figurati.»
Rimane per un po’ in piedi, poi avvicina prudente per sedersi sul letto, dove gli faccio posto.
«Che ne pensi del libro che ti ho dato?»
«Sembri un ragazzo sveglio, come puoi leggere questa roba?»
«Questa roba, come la chiami tu, è il Bagavagita, uno dei più importanti testi di filosofia di Krisna.»
«Non è filosofia questa, mi ha dato un libro che dice cosa è giusto e cosa è sbagliato senza dare troppe spiegazioni, non ci vedo tanto amore-per-la-conoscenza. Però magari è colpa del mio inglese... hai letto la Montagna incantata di Thomas Mann? No? Assomiglia un po’ alla vita che facciamo noi qua. Thomas Mann lo conosci però, spero!»
Inizio col fargli un pippone infinito sui libri che non può fare a meno di leggersi e il film che non può fare a meno di guardare. Glieli scrivo addirittura. E lui sta lì, ad ascoltarmi, buono come un gatto.
«Dimmi che ti ha detto tua mamma quando sei andato via di casa per farti monaco!»
«Ancora con questa storia! Basta, smettila! Te l’ho detto, avevo preso la mia decisione, cosa avrebbe dovuto dire…»
«E adesso che ti dice?»
«Sono cinque anni che vivo da solo!»
«Cinque anni che vivo da solo, non hai nemmeno la barba…»
«Sì che ce l’ho, guarda qui.»
«Per me questa storia di farti monaco, bah… a me sembri sheel crazy e basta; potevi diventare un ladro, uno spacciatore, un serial killer che tanto era uguale.»
Ride e crolla la testa sulle mie gambe incrociate, reggendosi con una mano sulla mia caviglia.
«Sei un ragazzino, cosa vuoi avere capito dalla vita, 23 anni e basta, anzi ancora 22 per l’esattezza, ne farò io 31 una settimana prima di te.»
«Lo sai che spacciavo quando stavo a Berlino? Cioè, così, tanto per arrotondare… e passavo giornate intere a suonare il piano e a calarmi di funghetti e di acidi.»
«Te l’ho detto, t’ho inquadrato subito… potrei ribattere con un’altra battuta, ma lasciamo stare. Che tristezza però, sempre la droga, non sapete divertirvi in nessun altro modo e avete tutto. Poi all’altro estremo la preghiera, la solitudine e l’astinenza. Lo trovo banale.»
«Tu non hai preso mai niente?»
«Ho provato giusto un paio di cose, le più popolari, acidi e funghetti non so nemmeno che forma hanno…»
«Ti assicuro che è sensazionale!»
«C’è anche un cretino che conosco che dice che chi assume droghe è più intelligente, ma lasciamo perdere...»
Philipp intanto roteava la testa e si stirava le spalle.
«Ho un mal di collo questi giorni, ci vorrebbe un bel massaggio…»
«Eh lo so, anche a me mi viene ogni tanto il torcicollo, avrai dormito storto. Su Youtube ci sono un sacco di video per farsi passare il mal di schiena, funzionano, io ho fatto alcuni esercizi per la mano, adesso però è meglio che la tengo a riposo...»
«Ti fanno male le spalle adesso?»
«No, tutto a posto. Che ore sono?»
«Sono le sei passate, forse dovremmo andare a cena. Senti, domani sera facciamo il falò, ci vieni?»

lunedì 28 luglio 2014

Giuliano, sei il mio buco nel calzino.

Sono trascorse ormai un paio di settimane dal mio arrivo e quando Philipp mi chiede per l’ennesima volta se voglio partecipare alla meditazione delle 4:00 del mattino, la mia risposta è ancora no.
Un po’ mi incuriosisce, sono sincera, ma resta di fatto che le 4:00 del mattino sono ok per rientrare a casa, non per svegliarsi. Magari è l’occasione buona per togliermi dalla testa Giuliano. Sì perché, dopotutto, che senso ha pensarci ancora?
Eppure ogni pretesto balordo me lo porta alla mente: può essere la risata inconsulta di un cocobarra tra le cime blu degli eucalipto, o l’unica mela ammaccata nel cesto di frutta. Il ragno nel bel mezzo del muro, il buco nel calzino, il segno del cuscino sulla guancia quando ti svegli; per il brivido liberato da una piccola sorprendente sorpresa. E finisce così che Giuliano, per un motivo o per un altro, ce l’ho sempre lì.
«Suoni qualche strumento?»
Philipp si aspettava una mia risposta dall’alto del suo metro e ottanta. «Peccato,» ribatte affettando il tono di voce, «poteva essere interessante». Annuisco cordialmente senza agganciarmi alla sua voglia di parlare.
La sala da pranzo è viva e languorosa. Fuori è sera e gli ospiti spostano le sedie in cerchio per stare  più vicini. C’è un uomo del Belgio che mi guarda spesso e che mi sorride. La figlia di Ruth, la cuoca, ha 12 anni e mi fa domande sul perché e sul per come disegno col computer. Io le dico alcune cose vere e altre inventate, lei capisce e cominciamo a scherzare. Philipp, che era rimasto in piedi dov’era, fila al pianoforte e comincia a suonare. Dicono di lui che sia bravissimo, ma non sta eseguendo Beethoven o Liszt, quindi non saprei. Faccio caso che ultimamente si siede spesso vicino a me a tavola ma ogni volta si agita come se stesse partecipando a un provino: fa le imitazioni, corre da una parte all’altra del tavolo, cita in sanscrito e in latino, fa il serio, il matto, l’intellettuale; e visto il multi-tasking penso che può essere anche lui dei Pesci come me, e infatti lo era.
«Tengo la lezione tra un’ora, nella casa verde; mi farebbe piacere se tu partecipassi.»
Non è che morissi dalla voglia. Volevo collegarmi su skype per parlare con Sofia e mio padre, ascoltarmi i messaggi vocali degli amici su whatsapp e guardarmi Breaking Bad. Poi Lea mi dice se mi va di fare una passeggiata con lei e Till dopo la lezione, e quindi accetto e mi prendo tutto il pacchetto.

Le scarpe vanno lasciate fuori, mi dice Lea. Stanno tutti seduti all’indiana per terra a cantare una preghiera. Philipp è al centro, vestito di una tunica bianca, suona e canta. C’è una specie di saluto da fare quando si entra, in pratica si deve accostare la fronte al pavimento. Dopo i canti, Philipp comincia la lezione. Per quanto ha soli 23 anni si atteggia con la sicurezza e l’esperienza di un uomo di profonda saggezza. Le ragazze sono visibilmente attratte dal suo personaggio e lui si compiace della loro tacita adorazione. A 30 anni suonati certe personalità non mi fanno più tanto effetto e osservo la scena con tenerezza. La lezione è strutturata come quelle degli incontri di CL, i concetti sono semplici anche per un idiota, e il vocabolario non solo è ridotto e limitato, ma è del tipo che fa presa sui disperati. Poi a una certa, quando dice senza mezzi termini che i presenti in sala sono migliori di quelli che vanno ai club e alle feste bevendo alcol, eccetera, mi viene naturale ribattere «cioè di quelli come me?».
Philipp si mette a ridere graziosamente, poi comincia il dibattito. Non dico esattamente quello che penso, anche perché sono appena arrivata, voglio studiarmela un attimo. Era un mondo totalmente nuovo per me, non avevo visto niente del genere prima. I ragazzi sono carini e gentili, tanto i monaci che i viaggiatori, nel senso che in un posto del genere non ci finisce, per intendersi, un punkabbestia, se non per disintossicarsi.
Finito tutto, io, Lea e Till ci incamminiamo per la collina. È un buio cieco, ci sono alcuni lampioni ma non illuminano tanto, per fortuna abbiamo le torce. Lea mi piace. Anche se è timida e parla pochissimo, è una ragazza sveglia. Till è un buontempone, riflette sulle questioni che gli poni e ti risponde giudiziosamente, ma senza alambiccarsi troppo o prendersene pena.
Dopo circa mezz’ora arriviamo in cima. C’è tutto il mare lì di sotto e Woolongong illuminata. Ho trovato dei nuovi amici e ne sono felice, da sola mi annoiavo troppo.

Il giorno dopo ritorno alla casa verde e chiedo di Philipp.
«Ti posso parlare di ieri sera?»
Gli chiedo un sacco di cose, lui è ben contento di rispondermi. C’è un bel sole, una bellissima giornata. Ci mettiamo in veranda a parlare.
«Quando hai deciso di diventare un monaco?»
«Avevo 17 anni, ho conosciuto un ragazzo che mi ha introdotto in un circolo hare krisna; è difficile da spiegare cosa mi ha spinto a diventarlo, l’ho sentito, così mi sono rasato a zero e sono partito per il Sudafrica, lasciando casa e scuola. Avevo i capelli lunghi, sai?»
«E tua mamma che ha detto?»
«Cos’ha detto, niente, che doveva dire, avevo preso la mia decisione.»
«E una ragazza ce l’avevi?»
Si mette a ridere, gli erano venute le fossette sulle guance. Ha la pelle rosa e chiara, quasi non c’è ombra di barba. Penso che di quel tipo lì diventano brutti invecchiandosi. Ero stata un po’ sfrontata, anche se la domanda era semplice e banale, ancora non ci conoscevamo bene e aleggiava un certo rigore nella casa verde.
«Io posso diventare monaco?»
«Vuoi diventare monaco?»
«Dico, se volessi.»
«Certo che puoi.»
«Perché allora i monaci sono tutti uomini?»
«Credo ci siano differenze tra uomini e donne, che non vuol dire –»
«Allora non è vero che posso diventare monaco? Quindi siete sessisti come nel cattolicesimo –»
«Ci sono delle differenze “biologiche” che non mi potrai negare, come che la donna è più emotiva, ha più difficoltà nel prendere il distacco dalle cose, all’uomo resta più facile, che non vuol dire che sia migliore o peggiore…»
Il discorso si faceva ampio sul ruolo del monaco, c’era da tirare fuori Platone e altre storie, per cui ho glissato e proseguito con le altre domande sul guru e come lo si diventa.
«Tu vuoi diventare guru?»
Lì l’avevo visto cambiare espressione, come se lo stessi prendendo per il culo, che un po’ effettivamente era.
«Ma che significa? Non è che lo puoi decidere tu, vieni scelto…»
«Ho capito, ma ti piacerebbe? Nel senso, come vivi questa spiritualità – non ti prendo in giro, sto solo cercando di capire… se diventi guru significa che hai raggiunto un certo livello di crescita spirituale, no?»
In lontananza vediamo avvicinarsi dei cervi. È sempre un piccolo miracolo vedere i cervi, specie da tanto vicino.
«A volte arrivano fin qui, sotto la mia finestra. Entriamo dentro, c’è un libro che voglio farti leggere.»

lunedì 21 luglio 2014

Dalla città alla foresta.

Felice, felicissima di lasciare l’ostello. L’ultima sera l’ho trascorsa in camera con le ragazze che ci avevo trovato dentro. La ragazza di New York secondo me era un tutt’uno con il letto e il portatile, non l’ho mai vista in piedi, nemmeno per andare a fare pipì. L’inglese si coricava tutti i giorni alle 18 e passava qualche ora sul cellulare prima di addormentarsi. L’ultima sera siamo state un po’ insieme a chiacchierare e ho letto i tarocchi a tutte. Ovviamente, professionista del campo, le ho lasciate tutte piacevolmente sorprese, anche l’australiana alcolista, che tra una chiacchiera e l’altra s’è scolata una bottiglia intera di vino da sola.
Ero felice più che altro di trovare un posto dove stare.
Prendo il treno da Town Hall. Sulla mappa, Coadcliffe è nel bel mezzo del Parco Nazionale. Sembra davvero vicino alla spiaggia e a giudicare dal sito web Vamana Valley sembra un paradiso, questa volta non mi sbaglio.
Il treno si allontana da Sydney, chilometro dopo chilometro, passata la stazione di Engadine, i centri abitati cominciano a scarseggiare. Dal finestrino vedo solo immense distese di eucalipto e qualche palma, che si stirano morbidamente fino a unirsi nell’orizzonte. Scendo a Helensburgh per cambiare. Wow, sono completamente in mezzo alla giunga! Non so se posso chiamarla “giungla”, ma ci assomiglia molto.
Alla stazione di Coadcliffe non c’è niente. C’è una signora dai capelli di nuvola seduta su una panchina con i piedi a mollo in un catino. La individuo subito come la classica persona bizzarra che bazzica per ritiri matrici e connessioni spirituli, le chiedo quindi dove posso trovare Vamana Valley e lei senza esitare mi dice di girare a destra una volta arrivata infondo alla via.
Il posto è vicinissimo alla stazione, tre minuti a piedi con lo zaino da 20 kg. Giardino immenso, curatissimo, campo da pallavolo, parcheggio. Tre edifici di diversa grandezza. Uno, scoprirò poi, è il dormitorio maschile dei devoti di krisna, uno l’abitazione della cuoca e di sua figlia, l’altra composta da due ali laterali e un corpo centrale di due piani è la sede principale. Le ali laterali sono le stanze per i guests e i volontari, il corpo centrale ospita due ampi saloni in parquet per gli yoga retreit, la sala da pranzo e la cucina.
Mi dicono di parlare con Philipp. Mi immagino, non so perché, un signore anziano, invece è un ragazzo tedesco di appena 23 anni. È carino, sicuramente non il tipo di ragazzo che può piacermi. Io invece mi accorgo di piacergli subito. Mi spiega a larghe linee cosa comporta essere un volontario: in pratica ci si divide i compiti tra gli altri volontari che consistono in apparecchiare per colazione, pranzo, cena, lavare le pentole (i piatti ognuno se li lava da sè), pulire le stanze degli ospiti, i saloni eccetera. Mi racconta poi di essere un monaco, che a 17 anni è andato via di casa, interrompendo gli studi, tutto, per rasarsi a zero, vivere per krisna e volare in Sud Africa. Si vede che è un ragazzo sveglio, molto, molto serio, di quelli con il palo nel culo, come li chiamo io, ma tutto sommato piacevole.
La mia camera è molto carina e accogliente. Ci sono quattro letti, due dei quali a castello. Lea è la ragazza tedesca che divide la stanza con me. Al momento non ci sono altre ragazze a parte Paula, un’australiana di Sydney che viene ogni tanto. Anche lei è silenziosissima, un po’ per timidezza, un po’ per il suo inglese insicuro. Tutto il posto è ovattato nel silenzio. Le chiedo se è anche lei una devota di krisna, mi dice di no. Mi spiega che Joan tiene tutte le sere dopo cena la lezione spirituale e che ogni tanto ci va. Mi dice poi di seguirla che mi mostra il posto. Lei è in Vamana Valley da due mesi ormai. Ci era arrivata con l’idea di fermarsi qualche giorno, poi invece si è trovata bene. L’odore del posto è quello della Chiccoteca di Pesaro, legno, infusi e incensi. No alcol, no fumo, no carne e derivati, solo alimentazione vegana. Nel salone c’è il pianoforte e tanti tavoli in legno massiccio. Su un banco ci sono i tè, gli infusi, un mini frigo con il latte di mucca, di riso, di soia, di original soja. Zucchero rigorosamente di canna, frutta. Prendi quello che vuoi, mi dice.
Mi faccio una doccia e mi preparo per la cena. C’è un tavolo grande per i volontari. I krisna boys fanno gruppo, sono carini ma non troppo socievoli, e altri due ragazzi tedeschi. Il mio inglese è ancora sbilenco, è la prima volta credo, da quando sono in Australia, che non c’è traccia di italiani intorno a me. E la cosa mi fa molto piacere.
Ci metto un po’ prima di sentirmi totalmente a mio agio. La lingua vuol dire tanto. Ho ancora tanto da imparare – e sono trascorsi tre mesi – mi perdo parecchi dettagli, mi stanco un sacco, mi esprimo in maniera grossolana. Nonostante l’esitazione delle mie prestazioni linguistiche non ostacola il mio sense of humor, che è in grado da solo di intrattenere una tavolata.
Dopo cena aiuto Till a lavare i piatti. È un ragazzo tedesco di 19 anni, davvero carino e simpatico. Sono felice dell’ambiente che ho incontrato. Sono tutti molto rispettosi e gentili, curiosi di sapere da dove vieni e che fai. Curiosi, ‘via un pretesto di cui parlare.

Vado a letto presto. Sono così felice di essere in questo lettino di betulla, con la coperta e il portatile sulle ginocchia. Wi-fii everywhere, yeah. Inzio (col duplice significato del termine iniziare) la settimana con la prima puntata della serie Breaking Bad, che mi terrà compagnia per giorni e giorni. Ho detto già a tutti che ho intenzione di fermarmi a Vamana per un paio di mesi, per via del libro, e tutti sono molto contenti.
Il giorno seguente mi sveglio con una proposta della rivista francese Transfuge di illustrare in cinque giorni l’articolo sull’ultimo libro di Walter Siti. Sono un po’ in panico per la tempistica, ma di buono c’è che essendo in Australia ho un giorno in più. Mi tocca a disegnare nel salone dove si pranza perché mi serve un tavolo. Mi scoccia un po’ non avere il senso della solitudine attorno, importantissimo per un disegnatore, e il via vai di gente che passa e vuole vedere che fai non è il massimo, ma direi che posso ringraziare tanto e forte perché sto giro m’è andata davvero, davvero bene!
La colazione comunque è immesa. Tre tipi differenti di pane, due tipi di burro, marmellate, Vegemaite, burro di noccioline, tre differenti tipi di cereali, latte di mucca, di riso, di soja, frutta. La colazione è e resterà per sempre il mio pasto prediletto.

Gli ospiti, i guests, non vi ho detto, ma l’avrete immaginato, vanno e vengono. Al mio arrivo c’è uno sparuto gruppo di danzatori e suonatori della Taketina, una danza eseguita cantando, che ho provato a farmi spiegare, che tende a riprodurre “le vibrazioni della natura e perciò, praticandola, entriamo in contatto con essa”. Ma qual è lo scopo, chiedo a uno dei maestri, “vivere in armonia e in assoluta pace”. Vi anticipo già che è stato il gruppo più simpatico tra quelli che ho incontrato in ben quattro mesi, dalla metà di febbraio alla metà di maggio. Per la maggior parte saranno gruppi yoga, niente di particolare, la gente viene per fare ginnastica. I migliori sono quelli che cercano le “connessioni” che hanno voglia di parlare e di attaccare bottone. I peggiori quelli del silenzio, tipo stanno dieci giorni senza parlare, si alzano alle cinque per meditare e alle sette di sera vanno a dormire, e quelli che gridano, che invece urlano per una settimana di fila, ma non mi sono mai capitati.

Le prime giornate trascorrono veloci grazie alle illustrazioni da fare. Mi è tutto ancora molto estraneo, non mi sento a casa. Ho notato però che questo è normale viaggiando, ci vuole sempre un po’ all’inizio prima di ambientarsi, e una volta che lo sai ti passa prima.
Non mi danno mai le colazioni, sempre il pranzo e la cena, questo significa che posso dormire fin che voglio, la colazione la smantellano alle dieci. Significa anche che posso disegnare fino tardi, immersa nella notte, finalmente sola. Quasi sola. Un opossum entra nel salone e si fionda a mangiare la frutta. Quant’è bello!!! Non ho mai visto un opossum dal vivo. Mi avvicino. Tanto. Ha il nasetto rosa rosa, gli occhi neri dei roditori, una bella coda lunga striata, più gonfia all’estremità. Riesco a toccarlo, troppo impegnato a mangiare per curarsi di me.

martedì 15 luglio 2014

«Baldi, a te capita in un giorno quello che a uno normale capita in un anno».

«E invece, di un po’, come sono i piselli di Sydney?»
La Central Lybrary è luminosa e accogliente come un Apple store. Sul tavolo in legno chiaro laminato, col beneficio del wi-fi gratuito, rispondo a Giuliano sulla chat di facebook.
«Sei sempre un signore…»
«Allora?»
«Ti ricordo che sono qui da quattro giorni.»
«Daaai, a me puoi dirlo!»
«Diavolo! Per ora ho conosciuto solo mandrie di ragazzini arrapati, per carità...»
«Ci sarà qualcuno decente…»
«No, e poi “decente” non è un grande premessa…»
«Vabbè…»
«Ma poi scusa, a te che te ne frega?»
Cielo, come mi manca.
«Comunque, io e Genna ti veniamo a trovare.»
A chilometri di distanza, nello stato del New South Galles, l’assenza di Giuliano è più forte di una sua ipotetica presenza. Per qualche ora si prende tutta la mia testa e non c’è verso di mandarlo via.
«Excuse me…»
Il ragazzo seduto accanto a me, ma sì, certo, ci eravamo conosciuti al party della sera prima.
«Hey, ciao, sì, sono io quella della festa, come stai?»
È un bravo ragazzo senz’ombra di dubbio, lombrosianamente parlando. È inglese, dello Yorkshire, quindi pronuncia bus come si scrive e non /’bas/. Parliamo delle solite cose di cui parlano tutti i backpackers. Entrami stiamo cercando lavoro, o meglio, stiamo cercando di capire cosa vogliamo fare. Restare a Sydney o ripartire?
Concordiamo che Sydney è davvero molto cara. Il rischio è spendere un sacco di soldi prima di trovare lavoro, se lo si trova. Non ho molto denaro con me, sono partita con 2,000 dollari da cui ho tolto i 250 dollari delle bollette, il treno, l’ostello e in generale sopravvivere in City.
Poi, mio problema sono sostanzialmente due problemi: la tendinite che mi ha distrutto le mani, e che quindi devo tenere a riposo, e i disegni per Emma di Jane Austen da cominciare ad illustrare tra un mese circa.
Per il libro, per il quale ho bisogno di una connessione internet, un tavolo e un lavoro part-time, la situazione ideale sarebbe fare woofing in un giardino bio-dinamico a ridosso di Sydney, magari anche sul mare. E Vamana Valley, un residence hare krisna che ospita eventi spirituali, attività di danza, yoga eccetera, sembra una buona soluzione. La descrizione del posto riporta anche la presenza di 15 volontari, e la cosa mi piace: voglio stare in mezzo ai ragazzi, famiglie e coppie solitarie bandite per sempre. Decido anyway di dormirci su.
Cazzeggio su facebook per un po’ prima di tornare in ostello. Modifico la località del mio profilo facebook, cancello Melbourne e scrivo Sydney, non si sa mai. Nel giro di nemmeno un paio d’ore vari amici mi contattano con lo stesso oggetto Oh, ma sei a Sydney?

Lo sai che a Sydney ci sta la Noe col moroso?
Lo sai che a Sydney ci vive Mascioni con la moglie? Daaii, Mascioni! Sei venuta con me un giorno a casa sua all’Acqualagna, ti ricordi?
Lo sai che a Sydney ci vive mio cugino?
Lo sai che a Sydney ci sta uno che giocava a calcetto con me nel 1998?
Lo sai che a Sydney ci vive Del Piero?

Digli che sei mia amica.
Chiedigli l’amicizia su fb, ti aiuta di sicuro a trovare lavoro, al massimo vi fate un birra!

Il bello di essere Italiani all’estero è che di sicuro non ti puoi sentire solo, nel senso che se anche ti ci impegni non ce la fai a isolarti. Deve essere qualcosa di profondamente radicato nei geni, nell’istinto, come i piccioni viaggiatori che non si perdono mai, sì, deve essere per forza qualcosa del genere. E non riguarda i francesi, ad esempio, e tanto meno gli inglesi o i finlandesi; appena forse i tedeschi, ma solo per vendersi o affittarsi autoveicoli e posti-letto, lavorare, ottenere informazioni utili per viaggiare.
La Noe comunque è in chat, M’ha detto l’Eli che sei a Sydney! Questo è il mio numero.
Mascioni intanto mi ha risposto su facebook e anche lui mi lascia il suo numero.
«Cate, madonna, come stai?»
«Ciao Marco! Bene, sono arrivata qualche giorno fa!»
«Ascolta, che fai adesso? Perché non vieni a casa mia? Oh, ma la Mari come sta?»
Finisce che vado a casa di Mascioni e di sua moglie, passiamo tutta la sera a parlare in dialetto urbinate/acqualagnese. Si discute dell’Australia, dell’Italia, della politica, della nostra generazione, il tempo che passa, le prospettive future. Mangiamo una pizza, c’è anche un’altra coppia di italiani che sono così gentili da riaccompagnarmi in ostello in macchina. Il ragazzo, Luca, 29 anni, del sud, mi racconta che si era ritrovato a Sydney completamente senza il becco di un euro, senza un posto in cui dormire. Quando sei con l’acqua alla gola ti ingegni, e lui aveva trovato ospitalità, non mi ricordo come, da un tizio che gli aveva dato il garage dove dormire. Mangiare praticamente niente per qualche giorno e poi improvvisamente trovare lavoro. Ora sia Luca che Chiara, 26, del nord, lavorano in un carwash. Coi ragazzi ci scambiamo i cellulari, magari si va a Bondi Beach insieme una di queste domeniche.
Il giorno dopo becco invece Noemi a Pyrmont. Mentre la aspetto, un ragazzo in suite elegante decide di tornare indietro.
«Ciao… è parecchio ventoso oggi!»
«Già.»
«Scusami, ma hai degli occhi bellissimi.»
«Grazie.»
«Lo so che non ci conosciamo, ma se magari ti offro un caffè ci potremmo conoscere…»
«Grazie, sei gentile… è che sto aspettando un’amica!»
«Ok, capito… e domani? Posso lasciarti il mio numero?»
«Grazie, davvero, ma sono proprio di passaggio!»
Bah. Davvero, non me lo spiego, era uno dei tanti giorni di bruttezza estrema. La felpa di Leeds University, la giacca a vento della Quequa, il naso bruciato dal sole, seduta per terra come un’accattona. Poi arriva Noemi.

Bella come il sole, lei e il suo ragazzo sono appena rietrati dall’Asia. Io e Noemi non eravamo amiche a Pesaro, cioè eravamo conoscenti. Frequentiamo lo stesso gruppo di amici, solo che quando ho cominciato a uscire con loro lei è andata a vivere a Londra. Eppure dal primo secondo che ci parliamo al telefono è come se fossimo amiche da sempre. La stessa cosa è successa con Nicoletta e Simona. Io, non mi serve tempo per innamorarmi delle persone. Questo fa capire che siamo circondati da un casino di amici potenziali. Il più delle volte la differenza la fa l’apertura con cui ci approcciamo agli altri grazie al momento giusto. Il momento giusto non è altro che la somma di elementi che rendono una particolare circostanza favorevole alla confidenza reciproca. Nel mio caso, l’elemento favorevole è stato condividere lo status di italiani all’estero. Si sa, tutto ciò che ci è familiare ci evita un sacco di fatica e il cervello tende sempre al risparmio energetico. Il bello è che il familiare possiamo trovarlo ovunque, sta a noi, e di conseguenza abbiamo anche il potere di creare il momento giusto. Quello che conta, insomma, è avere familiarità.

lunedì 7 luglio 2014

Sydney.

La stazione del treno è grande ma non grandissima. Niente a che vedere con la Gare de Lyon, la Victoria Rail Station, Roma Termini. E uscendo in strada non ti da la sensazione che ti da New York, quando dopo ore sotto terra, tra la navetta e la metropolitana, sbuchi nel cuore di Manhattan e ti manca il fiato per l’altitudine che l’architettura ha saputo raggiungere. Però ero felice, felice di essere libera, al sicura, in una nuova avventura tutta da decidere.
Sydney non è subito bellissima, ci mette un po’. Devi aspettare il momento giusto, che prima o poi arriverà. Io l’ho amata tra un locale a l’altro con lo spirito di chi si è perso, incontrando qualcuno con cui fare i bagordi, e in una sera d’autunno, negli occhi blu di un francese, tra vino bianco, Truffaut ed enjambment.
Quello che ti salta subito all’occhio di Sydney sono i soldi. Che sono diversi dalla ricchezza. Ricche sono Roma, Parigi, Londra. A Sydney ci sono i soldi. Gli uomini di Sydney non ci sono a Melbourne. Vestono camicie eleganti, girano rigorosamente in completo. Pochi hipsters, al contrario di Melbourne. Discutono fitto al Queen Victoria Building con i palmari e i cappuccini sul tavolo. Sono bellissimi e intoccabili, troppo impegnati per curarsi delle donne e dei turisti che vagolano per le scale mobili in cerca del bagno.
I bagni. Potrei aprire un capitolo solo sui bagni in giro per Sydney. Quello del Queen Victoria Building – che scusate non ho detto, è un edificio liberty del tardo Diciannovesimo secolo che ospita negozi raffinati e cafè all’ultima moda – ha il pavimento piastrellato bianco e nero, i rubinetti in ottone, un’infilata di specchi sospesi al centro della stanza. Ne ho visti altri degni di nota in club panoramici in cima a The Rocks, ma questo accadrà in futuro, in compagnia degli occhi blu d’oltrape.
Per il momento arrivo all’ostello consigliato dalla Lonely Planet e mi danno una camera con sei letti a castello. Due inglesi, una tedesca, un asiatico. Arriverà poi un’americana che non uscirà mai dalla stanza, un’australiana alcolista e un brasiliano che una mattina troverò schiantato sul letto con le braghe calate giù.
Primo giorno voglio rilassarmi, mi dico, non mi va di angosciarmi subito con la ricerca del lavoro. Mi faccio un giretto qua intorno, tanto per farmi un’idea. Sydney, per chi non avesse idea, assomiglia alle fauci di un mostro visto di profilo. Il cuore della City, in un certo senso, è sul canino dell’arcata inferiore e intorno si impetalano gli altri quartieri. Il cuore della City, inteso come la zona che va oltre la Central Station e comprende Pitt St. e George St., non è un gran che. È pieno di backpaker, locali per backpaker, negozi, centri commerciali sotterranei (come a Melbourne ma molti di più e più grandi). A parte l’Opera House, i giardini botanici, ho amato molto i quartieri residenziali di Surry Hills e di Ultimo, Redfern, le case dei pescatori di fine Ottocento restaurate, bagante dal mare. The Rock è molto, molto carina, fai le scalette e arrivi in alto. Ci sono i locali più sciccosi e, devo dire, Sydney è una città che ti godi davvero se puoi spendere, a meno che di fare l’incontro giusto, o a meno che di partecipare alle serate per i backpaker dove paghi $20 per bere a sfondo in quattro locali diversi, c’è un gioco da fare di solito e chi vince va in vacanza gratis da qualche parte.
Ad ogni modo, quel primo giorno mi sento molto sola. Vado a letto presto, perché non so dove andare, perché ho voglia di sentirmi al sicuro. Marco, il ragazzo italiano che faceva le pizze e il dj, con cui ero stata a letto una delle ultime sere prima di partire, mi scrive ogni sera un messaggio e mi è di gran conforto, mi sento coccolata. La seconda notte però penso che devo assolutamente trovare una festa.
Sapete come funzionano molti ostelli, hanno la cucina e tu cucini. Compro il minimo indispensabile, il pane, due pomodori, le uova, due scatolette di tonno e il caffè solubile che mi devono bastare per l’intera settimana. L’acqua una bottiglietta che è sempre quella che riempio dal rubinetto e che fa schifo, ma qua l’acqua costa una follia, è carissima, come il gelato e la cocaina. Meglio l’acqua del rubinetto e la meth. Gli ultimi giorni avrò un’acidità di stomaco che non vi sto a raccontare. Finisco di cenare e mi piazzo in uno dei tavolini per farmi preda. I ragazzi dell’ostello stanno facendo un gioco e alla domanda “what is the Fandango?” io rispondo che è una danza. La squadra vicino mi fa cenno di partecipare.
Durante e dopo il gioco ci beviamo litri di vino in cartone, un misto tra Tavernello e tisana ai frutti di bosco. Poi si esce, maratona nei locali, si beve gratis. Età media 22, 23 anni. Dopo un po’ che prendo confidenza con il gruppo sfoggio i miei soliti numeri da cabaret: danze di ogni tipo, mischiando cultura, abilità e simpatia – l’ho detta come Caterina Balivo –, fischio. Lo so, è il solito repertorio di scemenze, mi sembro quei bontemponi di cinquant’anni che si sono giocati le stesse battute per una vita, ma tanto nessuno dei presenti m’ha mai visto e mai mi rivedrà più e ognuno, come da manuale, resterà piacevolmente sorpreso.
Sono anche come al solito vestita male e, sempre come al solito, in pochi minuti sono accerchiata dai maschietti. Eh, lo so. Trent’anni vorranno dire qualcosa, o no? Consapevolezza del proprio corpo, nessun tipo di dramma, ammiccare con leggerezza, e fine. Che poi è per scherzare e basta. Una ragazza che era con me si era però avvilita moltissimo. Si era agghindata con dovizia, avrà avuto sì e no vent’anni, florida e carina. Doveva sedurre qualcuno a ogni costo o sarebbe crollata psicologicamente quella sera. Si annaffia ripetutamente con una schifezza di gin e Redbull, quando non ce la fa più si bacia il primo che le passa davanti, poi molla e torna in ostello con le altre ragazze. Mi chiedono se voglio rientrare anche io. Non ne ho molta voglia a dire il vero. Mi volto per vedere chi c’è rimasto: solo due ragazzi svedesi.
Resto.
Siamo in tre, e l’atmosfera è pacifica e rilassata. Siamo in strada, siamo stanchi e abbiamo fame. Mi piace andare in giro con i ragazzi, non gliene frega niente. Le ragazze, specie se non le conosci bene, ti richiedono uno sforzo di delicatezza.
Non ricordo i loro nomi, ce li ho su facebook ma non ci siamo mai sentiti. Uno, Jorg (per dire), è alto, di bell’aspetto, ha la mia età e fa il ballerino di danza classica. Non ha niente dei ballerini di danza classica, assomiglia invece in sacco a Lorenzo Lamas, quello di Renegade. L’altro, Jirk (sempre per dire), basso, moro, tratti mediorientali. Lo guardo bene, non mi sbaglio.
«Sei iraniano?»
Gli canto Jane Marian, che mi avevano insegnato Sarah e Neda quando vivevo a Milano e loro erano in Italia per studiare una architettura, l’altra disegno industriale. E anche Jane Marian la ripropongo sempre ogni qual volta incontro persiani lungo il mio cammino.
Lui mi dice, Oh my God, I’m fall in love with you. Mi prende sotto braccio e torniamo in ostello tutti e tre insieme.

Il giorno dopo mi sveglio abbastanza presto e dopo la colazione mi dirigo per la biblioteca.
Questa è bella.
Incontro la ragazza inglese della sera prima che vedendomi sembra a disagio, ma io non me ne curo anche perché per quel che mi riguarda non ce n’è motivo. Lei mi dice che sta cercando lavoro, io che ancora non ho deciso cosa fare, comunque in teoria uguale.

Cammina, cammina, un cameramen, una giornalista con il microfono in mano. Si guardano intorno rapidi per pesacare qualcuno da intervistare. Incrociano i miei occhi e non posso fare a meno di fare un gran sorriso. La ragazza inglese se ne va, non vuole partecipare. Ahahah! Certo, solo a me può capitare qualcosa di simile. Come mi dirà poi Giuliano, Baldi a te capita in un giorno quello che a uno normale capita in un anno. Insomma, finisce che mi intervistano. Mi chiedono se soffro di mal di testa, quando mi viene e come me lo tolgo. Io mi figuro subito che magari lo Scozzese mi vede in televisione e si fa una risata. A parte lui, rispondo da gran signora che il mal di testa ce l’ho se mischio vino e birra, e che per farmelo passare mi prendo una pasticca e via.

domenica 29 giugno 2014

Ecco perché in fattoria non ho resistito un giorno.

Ci vogliono circa dieci ore di pullman da Melbourne a Canberra. Che poi a Canberra devo cambiare e prendere un altro pullman per Goulburn, che non è ancora l’ultima destinazione e non lo sarà nemmeno Crookwell, il primo centro abitato da un paio di famiglie, con un bar e un benzinaio dal quale la fattoria dove sono diretta dista quaranta minuti.
A Goulburn mi era venuto a prendere Greg, un uomo sulla cinquantina con la camicia a quadri e un cappello da gaucho dalla falda larga. Salgo sul suo pick up, Greg carica lo zaino grande dietro, mi tengo davanti quello piccolo con il computer e la tavoletta grafica, visto mai le buche. Parla con un accento stretto ma riesco capire grosso modo quello che mi dice.
Non so descrivere come mi sento. La strada è dritta, ce n’è una sola, e si stringe chilometro dopo chilometro. Greg mi racconta come vende i suoi cavalli. Possiede più di 2,000 acri di terreno e un centinaio di capi che lui e sua moglie Toni crescono in libertà. Mi dice che ha buoni affari con gli americani e che vende gli stalloni a cifre vertiginose. Mi faccio silenziosa, non c’è più tanto di cui parlare. È l’ora del tramonto, wallaby e canguri corrono ai fianchi della macchina. I canguri sono enormi, visti liberi hanno dello spettacolare. Ogni tanto ce n’è uno morto ai lati della strada. Chiedo come funziona per rimuoverli, Greg dice che rimangono lì a decomporsi ma secondo me non può essere altrimenti si sarebbero visti in giro scheletri e carcasse.
Dopo un’ora arriviamo alla fattoria. Sinceramente, dopo aver visto il sito web e ascoltato i racconti di Greg mi aspettavo la fattoria dei Mini Pony, coi recinti bianchi freschi di pittura, capannoni enormi, stalle dalle pareti altissime, stallieri fisicati, lo zio Tom.
Tre cagnolini ci accolgono, scodinzolando affettuosi. Cumuli di vecchi motori, ruote di scorta bucate, pezzi di ferro abbandonati. Un albero al centro della più completa desolazione, la casa a dirimpetto. Una costruzione in legno che ricorda le foto da reportage dal titolo ipotetico Quel che resta dell’URSS, che tenuta come si deve manterrebbe ugualmente l’aspetto di una vecchia roulotte che ha ospitato storie di meth addiction e redenzione cattolicopatica.
Dentro casa invece è tutto un altro scenario. Non è vero. Ci sono però tre televisori piatti LCD accesi contemporaneamente e sappiate che qui non è come in Italia che ci è toccato il televisore col decoder per l’illegalità di Rete 4, la vecchia telly tiene ancora botta.
Toni è una donna dolcissima, anche lei sulla cinquantina. Hanno due figli, si capisce dalle foto appese. Mi siedo al tavolo coperto da una tovaglia di plastica. Greg mi offre una birra, certo, ho bisogno di bere qualcosa. La mia stanza è una vecchia camera trasformata in ripostiglio. Ci sono valigie e scatoloni piena di roba, tutta l’abitazione straborda di roba. Come succede ai canguri morti, le cose ad un certo punto trovano un posto e lì vengono dimenticate.
Mi aspetto di dovermi svegliare presto, alle cinque tipo. Durante la notte non chiudo occhio. Ah, già. Il telefono non prende. Non tanto internet, quello me lo aspettavo, ma proprio non c’è linea. Questo significa che la mia unica opportunità di socializzare è Toni e Greg, Greg e Toni. Gli animali, certo. Alla fine era quello che volevo, no? Stare lontana dalle feste e dagli eventi mondani per un po’. Studiare e basta, imparare come si accudiscono i cavalli. Poi quando meno te l’aspetti arriva Robert Redford, si fa per dire.
Al mattino colazione con un caffè. Non ho avuto bisogno della sveglia, ero all’erta a sentire i rumori della casa. Seguo Greg per il cortile, mi fa vedere dove le galline fanno le uova. Ho la mano che mi fa male, il lavoro mi ha distrutto i tendini. Mi guardo intorno, cerco di capire dov’è Toni. Chiedo a Greg di tutti quei motori e moto accatastati lasciati in mezzo al cortile. Lui vuole sapere se ho la patente, così se voglio farmi un giro in paese posso usare la macchina.
Mi dice di salire sul pick up. Siamo io e Greg e basta. Non mi sento molto a mio agio, non mi entusiasma l’idea di passare le mie giornate sola con lui. La strada è tutta dissestata. Ancora i wallaby e i canguri che ci corrono accanto, cerco di emozionarmi ma non ci riesco. Greg ha un grosso coltello vicino al sedile. Quando ferma la macchina mi chiede di aiutarlo a smontare una balla di fieno dal retro e di sparpagliarla intorno.
Il giro non termina mai. Comincio a innervosirmi, è una situazione che non mi piace. Maybe sono con la persona più buona e carina di questo mondo ma in caso contrario non avrei via di scampo. Faccio mente locale sulle possibili opzioni. Lui parla di serpenti, colgo la palla al balzo, cosa succede se morde un serpente. Succede che di solito non accade ma può sempre capitare! C’è solo da augurarsi il meglio perché l’ospedale più vicino è a più di 60 km. Quanti altri woofer avete ospitato, chiedo. Si fa una grossa risata e a quel punto realizzo che devo andarmene: tu sei la prima!
Mi sento in colpa, dubitare di questa coppia solo perché la situazione ha tutti gli ingredienti di un thriller di successo.
Al ritorno, alla sola vista di Toni mi si allarga il cuore. È ancora mattina, sarà appena mezzogiorno. Dico che sono desolata ma che voglio essere riaccompagnata a Goulbourn. Spiego che non avevo idea di come fosse dura la vita di campagna, che non mi sento molto a mio agio senza telefono eccetera.
Vuoi andartene adesso? Non vuoi provare nemmeno un paio di altri giorni?
Hai paura forse che ti ammazziamo?
Credo che la chiusa poteva risparmiarsela ma forse li capisco. Ho cercato di essere più carina possibile ma Greg ormai si era arrabbiato. Dice alla moglie di portarmi giù al paese, che lui non ne ha voglia.
Felice carico le mie cose in macchina. Abbraccio Greg, non me ne frega un accidente se se l’è presa. Sono con Toni adesso, lei è dolcissima. È un caldo afoso fuori, Toni mi aspetta fuori dal supermercato. Insiste che io compri qualcosa da mangiare per il mio lungo viaggio. Non ho ancora idea dove andare.
In stazione appoggio tutta la mia roba per terra. Telefono subito in carica. Mi fa male la mano ma sono di nuovo libera e senza un piano. Non ho molto denaro con me, devo trovarmi un lavoro al più presto.

Mi avvicino allo sportello e compro un biglietto per la città più grande e costosa dell’Australia.