lunedì 26 maggio 2014

L'è nata poca donna.


È difficile sentire l’atmosfera natalizia con 28 gradi là fuori, specie se hai appena fatto il tuo primo bagno nell’oceano. Il sole è cocente a Melbourne, ci sono giorni che è meglio restare in casa. Non è ancora piena estate, il culmine arriva a febbraio dove si raggiungono i 40 gradi. È un caldo asciutto, non mi da fastidio. La sensazione è quella di un mega fohn che spara interrottamente aria calda sulla città. In verità, in quanto a clima, Melbourne è lunatica. Esci di casa la mattina presto fa un caldo boia, decidi quindi di andare in spiaggia ma piove un po’ e ti tocca tornare a casa e metterti la felpa. Comunque, pare che sia così un po’ tutta l’Australia, per lo meno sul versante orientale. Il problema del tempo attanaglia tutti, come in Inghilterra; e visto che l’80% del sangue australiano è anglosassone, mi vien da dire, saranno forse gli inglesi a portare un po’ sfiga?
Ritornando al Natale, dai vicini intanto, oltre il cancello, è successo un putiferio.
Galeotto fu un bloody alberello con pallette colorate e un babbo natale seduto sulla cima dell’abete, sì, proprio al posto della cometa, o come meglio preferite, un babbo natale con l’alberello infilato, non so perché e a chi sia venuta in mente un’idea del genere, comunque. Il punto è che da sopra il tavolinetto del tavolo dove era, il babbo-albero o l’albero-babbo finisce in cortile, vicino ai bidoni della spazzatura.
«Brad è un metallaro di merda!»
Certo, solo un metallaro può impazzire in quel modo di fronte a babbo natale. È sicuramente colpa dei suoi gusti musicali, che fanno un tutt’uno con il suo stile di vita, i suoi credo, la sua concezione dell’universo. Anche se, per quanto Nicoletta sia mia amica e penso che Brad abbia esagerato, intimamente lo appoggio. Per fortuna gli altri coinquilini, metallari anche loro, non hanno aperto bocca sulla questione del babbo-albero, Dan perché non parla proprio, Roy perché non esce mai dall’oscurità della sua cameretta, se non per mangiare gli avanzi dei super abbondanti pasti che prepara Nicoletta da brava siciliana. E sempre da brava siciliana, intanto che cucina e lava, si lamenta che nessuno fa niente in casa. Una settimana a Natale, la ragazza del sud appronta il suo piano di guerra.
«Stellaaaa!!!», mi urla che sono a un metro da lei per attirare la mia attenzione e come un vecchio bacucco il più delle volte non le rispondo. Vuole che la aiuto a preparare il menù. Per me pasta, vino e panettone e Natale è bello che pronto.
«Ma che sei impazzita?!!!».
«Nicolè, fa come te pare, io spingo il carrello, va ben?»
Sono brava ad ascoltare e a dare buoni consigli alle amiche ma, per carità, non chiedetemi se è meglio la tovaglia con le renne o quella con i fiocchi di neve, se l’albero-babbo n. 2 sta meglio sul tavolinetto, al posto del l’albero-babbo n. 1, o per terra vicino all’entrata. Ho risposto che per me può star bene vicino ai bidoni, come l’albero-babbo n. 1, ma non la faccio ridere.
Poi mi fa ascoltare la playlist delle feste. Conosco Nicoletta e la sua musica bella zalla, come dice lei stessa. Obietto solo che visto quello che è successo all’albero-babbo, Ai seu te pego, Macarena e Cecerece suonano come una dichiarazioni di guerra, ma lei ribatte che quelli sono dei mentecatti, che già che c’è da mangiare gratis stanno a posto.

Il 24 dicembre lo passo quindi con Nicoletta e i nuovi amici, il 25 barbecue a Mornington con gli amici di Pesaro – che finalmente riesco a beccare dopo un’era zeologica che non ci si vede –, capodanno di nuovo con Nicoletta e Simona, un’amica di Vicenza da poco a Perth che non vuole passare le festività da sola. Giuliano non lo sento da un po’ invece, la sua ragazza s’è ingelosita e non vuole che passiamo le feste insieme. Ci mancherebbe, non mi metterei mai in mezzo a una storia, sono sempre stata corretta, l’ho solo sfiorato, infinite volte, col pensiero.

La notte del 31 c’è un sacco di gente a casa dei vicini. Tutti sono tranquilli e sereni, la cena ottima, conosco un ragazzo di Brisbane di nome Tim. Magrolino, biondino con la barbetta, sembra Curt Cobain, è professore di recitazione all’Università e ha solo 25 anni. Io mi faccio presto ubriachella, è carino, mi accorgo che gli piaccio. Le ragazze sono tirate a lucido, truccatissime, i ragazzi pure, alcuni giacca e cravatta addirittura. Io sono sempre il solito animale, se c’è da andare a ballare jeans e scarpe da tennis, specie a capodanno, perché non si sa mai come e dove si va a finire.
«Che dici, ce ne andiamo a Edimburgh Park?»
Un casino di gente quella sera andava a Edimburgh Park, mi arrivano sms di amici diretti lì.
Chiedo un po’ in giro, Nicoletta vuole rimanere a casa con gli altri, sono tutti ubriachi come cenci, io e Simona ce ne andiamo e Tim e altri ci vengono dietro. Camminiamo una cifra, ma quando sei brillo non ci fai caso, specie se non fa freddo e sei in compagnia. Un uomo in bicicletta con una canna in bocca si ferma e ce la offre. Io e Tim ci baciamo. Prendiamo un tram, io e Tim vicini, gli altri dietro di noi che ci sfottono.
Edimburgh Park è un delirio! Si sente pompare la musica elettronica dalla strada, musica come si deve, minimal da Cocoricò (#benedettosiasempreilcocoricò), c’è un fottio di gente, Tim mi tiene per mano. Simo urla, la folla ci risucchia. Un ragazzo mi prende il braccio e mi trascina via, mi vuole baciare – ps: è in md’ sparato – ma c’è Tim che mi riprende e mi chiede se voglio andare via con lui.
No, non se ne parla. Gesù, è capodanno! E mentre lui se ne va, io e Simona saltiamo come grilli in mezzo a quel casino sprizzante di gioie chimiche. Per terra ci sono bottiglie e bicchieri di plastica. Mi guardo intorno per vedere se incontro qualcuno che conosco ma c’è troppo delirio, e poi è buio, non si vede niente.
A una certa decidiamo di tornare a casa. Il pellegrinaggio Macerata-Loreto che avevo fatto da ragazzina era stato meno straziante. Gli autobus e i tram passano a babbo morto, tutti sono ad aspettare i taxi, i taxi a Melbourne fanno schifo, hanno regole tutte loro, se tu non vai nella loro direzione non ti caricano, è peggio che a Roma. Almeno io e Simona stiamo comode, ci sono torme di ragazze ai bordi delle strade che si trascinano sui tacchi come vacche zoppe.
Siamo a Fitzroy e ci facciamo Brunskwick Road avanti e indietro un paio di volte. Non fatevi ingannare dal nome della via, anche se si chiama come il mio quartiere sta tutta da un’altra parte. Ci sediamo sul ciglio della strada ad aspettare. Mi telefona Genna, «Cate, ma dove sei?». Gli dico della serata, si fa due risate «ci sei mancata, maledetta, ma perché non ci raggiungi?», «Giuliano non è con voi? La sai la storia, no?», «No, è con la tipa, tranx», ma io e Simona siamo letteralmente morte e, visto che poi i taxi non passano, non c’è modo di muoversi in alcuna direzione se non a piedi.
Grazie al cielo alla fine ne troviamo uno.
Fa un freddo cane e come arriviamo a casa ci nascondiamo sotto le coperte. È stata una bella serata, mi sono proprio divertita tanto. Mi chiedo come è proseguita la festa a casa di Nicoletta, tra i balli di gruppo e la sangria.

La mattina siamo di nuovo da lei. Colazione insieme e poi tutte sul divano a raccontarci i gossip della serata. Una coppia ha litigato, Nicoletta s’è sbaciucchiata uno, Chiara, la ragazza che aveva seguito me e Simona a Edimburgh Park, è finita a letto con un tipo, Brad e altri metallari a una certa si sono chiusi in camera e hanno fumato tutta la notte. Sentiamo casino al piano di sopra, si sono svegliati pure loro. Giornata post-capodanno, cinque ragazzi contro cinque ragazze. Sì, fate bene a pensare male, ma di base nessuno conclude niente con nessuno, sembra di stare dentro a una sitcom dove A ci prova con B che vuole C che è indeciso tra A e D, allora anche E pensa che A non sia male, eccetera, un puttanaio insomma, dove io sicuro sono Z che proprio, proprio non ne voglio sapere niente. E a forza di lettere che si incrociano mi viene nostalgia di risolvere in santa pace uno schema di Bartezzaghi.

lunedì 19 maggio 2014

La gente mi regala la droga, parte I.


Il tipo dell’ostello ci ha dato una camerata da sedici, i letti non sono a castello però, e con quelle pareti alte sembra un vecchio ospedale. Quando entro, Giuliano dorme rannicchiato con le cuffie anti-rumore e la tuta da operaio. Non so come mi viene, mi ritaglio un posticino accanto a lui, anche se il mio letto è davanti al suo. Lo sveglio e si è spostato, ecco, lo sapevo, ma che mi è saltato in mente?
Invece mi fa spazio, così che possa entrarci anche io.
«Che succede là fuori?»
In camera c’è un casino di dio, ragazzi che entrano ed escono, sono le sei di pomeriggio, di fuori c’è la polizia, hanno preso un ragazzo, c’è stata una specie di rissa, non ho capito per cosa.
Giuliano mi fa ala con il braccio, così appoggio la testa sulla sua spalla. Mi dice che ha lavorato tutto il giorno, che non ne può più, io penso che lì così con lui sto bene. Entra in quel momento un tizio col naso spaccato, seguito da altri due, ci preme contro una pezzola per fermare il sangue. Ci tiriamo su per vedere ma non si capisce, anche se i tre parlano romano.
«Che vuoi fare Baldi?»
Nel senso di “adesso”, se mi va di guardare un film al computer. Non lo so, e stiro le braccia verso l’alto, e mentre ci penso, Giuliano s’infila nel mio spazio. La mia faccia è tanto vicina alla sua di poco così. Gli accarezzo i capelli e ho una voglia matta di baciarlo.
«Che fai?»
Lo vedo abbassare gli occhi per frugarsi in tasca e tirare fuori un pezzetto di mdma da sniffare.
«Così mi ribecco un po’.»
Mi sveglio subito dopo averlo guardato dritto negli occhi suoi belli e detto Ma che sei scemo?
È anche tardi poi. Maledette pennichelle del pomeriggio. Se non fosse che Albion street per farla tutta, a piedi, ci vogliono una decina di minuti abbondanti.

Al lavoro arrivo in orario, grazie al cielo. Mica che succede chissà che, però devo timbrare il cartellino (in realtà inserire il mio codice al computer, ma il principio è lo stesso). Sono stanca. Stanca, stanca, stanca. È dura la vita da lavapiatti. Se penso poi alle notti che mi sveglio nel sonno per le braccia completamente addormentate, le dita che mi formicolano, il dolore ai polsi. L’acqua nel lavabo è color rosso ruggine, torbida e scura, non si vede il fondo. Anche a me capita spesso di non vedere il fondo, quanto durerà ancora? Nel lavabo, almeno, so per certo che non ci troverò altro che teglie, piatti, pentole e coltelli, di sucuro non un quadrifoglio o una lettera d’amore.
I cuochi per le dieci e mezza sono fuori della cucina. Rimango sola e in santa pace, con tutto da lavare. Non è domenica, per fortuna. La domenica sera devo svuotare tutta la camera frigo e pulire le ante e i ripiani, e rimettere tutto dentro. Le friggitrici sono sempre ricoperte d’olio e il piano cottura è comunque da smontare per mettere a bagno con la soluzione che corrode il grasso bruciato. Trascinato poi i sacchi della spazzatura nel seminterrato per svuotarli. I coackroaches mi sentono arrivare e mi passano davanti terrorizzati, scappando via sulle loro gambette. Non mi resta che buttare acqua bollente e saponata sul pavimento, sfregare con lo spazzolone e togliere l’acqua e la schiuma con un attrezzo simile a quello che hanno i benzinai per pulire i vetri. Sembra di fare la barba a un orco.
È mezzanotte. In strada c’è un’aria meravigliosa. È sabato sera. I ragazzi in strada ridono e ammiccano alle ragazze orientali che sorridono in singulti interrotti sotto le loro manine bianche. Mi sono cambiata la maglietta prima, e le scarpe, ma continuo ad avere addosso l’odore del Lounge Bar. Radio Kiss stasera trasmetteva hip-hop tutta la notte. Ah, non ve l’ho detto, c’è una radio sopra il Lounge Bar, esattamente dove il Lounge Bar tiene il magazzino con le spezie e gli inscatolati, dove teniamo le sedie accatastate, dove i dipendenti si cambiano prima di andare a lavorare. Ci sono due grandi sale, per essere precisi. In una c’è il dj che mette la musica per il pub, nell’altra Radio Kiss. Ci sono a tutte le ore del giorno anche loro, mi sorridono vedendomi arrivare con i pacchi di roba quando faccio il delivery, e ogni tanto qualcuno di loro mi apre la porta vedendomi arrivare. C’è un mio amico che ci lavora ogni tanto, ma ancora non lo conosco.
Alla fermata del tram mi siedo, finalmente. Vedo poi un ragazzo che mi pare di conoscere.
«Hey, com’è? Caterina, giusto?»
Avevo conosciuto Mattia a una festa a casa di amici la scorsa settimana. Anche lui ha appena staccato dal lavoro. Anche lui non sa bene cosa fare, in generale intendo, se rimanere in Australia o meno, se girare il mondo, se trovare pace da qualche parte. Tira fuori poi dalle tasche un sacchetto di plastica con dei biscotti.
«Ho sempre la mia scorta personale», dice, «li ho fatti io».
Ringrazio, lì per lì non capisco, poi lo guardo, ride, mi riguarda e capisco.
«È la prima volta che provo un biscotto alla maria! Non è che poi dopo sto male?»
Ormai è andata, di sapore intanto è buono. Mattia mi saluta e sparisce nel tram 56 come un angelo della notte. Nel frattempo Genna mi manda un messaggio sul cell che è con Domenico in un pub in Brunswick, sulla Sydney Road. Stasera butta bene, mi dico, Giuliano non c’è che è con la tipa. Dico anche a Nicoletta di raggiungermi, è con Julia, una ragazza spagnola. Sono ancora sul tram, ancora non sento niente.
I ragazzi sono in fila fuori dal locale. Racconto ai ragazzi quello che mi è appena successo, «Grande Cate, te sei il nostro mito!». Comincio a sparare una marea di cazzate e attacco bottone a quelli davanti a noi. Facciamo amicizia e intanto ci scaldiamo prima di entrare.
Poi ho una specie di capogiro, come se non mi sentissi bene. Un attimo sudo freddo, saranno gli effetti del biscotto, mi prendo male un secondo. In pratica se la fumi ti sale subito, se la mangi ci vuole un po’. Però, cacchio, amazing!
Se devo essere sincera, non è che mi serve il biscotto alla maria per divertirmi e per fare la cretina. È più la situazione che mi esalta, essere con i miei amici a fare i coglioni. Anche qui, siamo i più brutti di tutti, tranne Nicoletta e Julia, loro si erano addobbate tutte per il Sabato sera. Mi sento un uomo di mare, un pirata di quei film ambientati nell’ ‘800, marinai spavaldi che hanno girato il mondo, che non hanno paura di niente, specie se devono fare i ganzi con qualche donzella. Nel mio caso non si tratta di donzelle, ma strizzo l’occhio a sandroni impomatati alti due metri e più sono belli, più cavolo danno soddisfazione. Non c’erano poi chissà quali manzi quella sera. Oddio, manzi sì, non “interessanti” però. Uno, il più b’lino, mi inchino al suo cospetto e lo aggancio sottobraccio in una sorta di danza irlandese, anche se davano i Prodigy. Poi lo smollo subito con Smell like teen spirit dei Nirvana. Ma quanto c’hai, 16 anni?
Genna, Domenico e io ci abbracciamo e zompiamo in mezzo alla pista, indisponendo qualcuno. Vorrebbero un po’ di mdma, dicono, loro, che ve ne frega, rispondo io, raga, bisogna che cominciate anche a divertirvi senza. Il belloccione mi solleva da dietro, io mi divincolo e gli faccio la pernacchia prima di scappare via, lui mi sorride da lontano, pensa che sono simpatica.

Sono fuori come un culo!, urlo agli altri, che scoperta questi biscottini. Mi prendo una birra, è fresca, ghiacciata, va giù che è una meraviglia. Sono tutta sudata e accaldata, penso che mi sto divertendo da morire e che questo tempo non ha prezzo. Si sgobba tanto per i soldi, per i traguardi, quando il tempo è la sola cosa che non potrai mai permetterti di comprare o riavere indietro. Dicono della verginità, che quando la perdi poi la rivuoi, ma sinceramente di quello non me ne frega proprio niente, anzi, semmai l’incontrario.

lunedì 12 maggio 2014

Couchsurfing.org non è un sito di incontri.


Collingwood è il quartiere dei fricchettoni non solo per l’Abbotsford Convent ma anche per la Sophia Mundi Steiner School, lo Yarra Bend Park e le iniziative che organizzano al suo interno. A mostrarmi il quartiere è un tale Holly Dance che conosco tramite Couchsurfing. Suppongo che Holly Dance sia il suo nome d’arte, ma non gli chiedo come si chiami veramente, anche perché dopo quel pomeriggio trascorso insieme non ci siamo più rivisti. Dico al lavoro che avrei incontrato questo tizio contattato tramite couchsurfing, ma loro fanno i deficienti, se esci con un ragazzo è per andarci a letto eccetera, per quale motivo sennò? Gli dico che non so nemmeno che faccia abbia, ti piacciano gli appuntamenti al buio allora? Provo a spiegargli che couchsurfing.org non è un sito di incontri, ti mette in contatto con altri viaggiatori, di solito per chiedere ospitalità per qualche notte, oppure per conoscere qualcuno del posto che stai visitando, lieto di farti da guida. Per quanto, se devo dirla tutta, un sacco di tipi mi hanno detto che usano il couchsurfing per rimediare un po’ di sesso mentre altri, più romantici, ci hanno trovato la fidanzata. Tralasciando l’ultimo punto, gli chef non sembrano soddisfatti della mia spiegazione anche se dopo averci pensato un po’ mi rispondono cool.
Holly Dance ha circa 45 anni e si chiama così perché da lezioni di danza creativa (boh!) al Convent. È un tipo piuttosto strano, non scende quasi mai dalla bici perché è caduto non so dove, e si è fatto male al ginocchio. La sua due ruote sembra equipaggiata per la traversata del deserto, ha un fanale grosso quanto un faro, adesivi catarifrangenti ovunque e un grosso portapacchi coperto da un telo di plastica che funge da bauletto. Non mi capisce bene quando parlo e ogni tanto ne sembra infastidito. Tutto sommato è un uomo gentile e mi porta a fare una lunga passeggiata allo Yarra Bend Park. Lo Yarra River è ancora una bisciolina, prima di ingrossarsi attraversando Melbourne, e sfociare nella Hobson Bay. Passeggiamo lungo la sponda, nei graziosi viottoli, dove veniamo superati da jogger di tutte le età, raggiungiamo il Convent, e qui finalmente parcheggia la bicicletta. C’è una specie di mensa dove si può consumare lasciando un’offerta e dentro ci lavorano dei volontari. Sembra di essere tornati indietro negli anni ’70: ci sono capelloni, rasta, ragazze con la coroncina di fiori in testa, abiti consumati di seconda mano, India e Equo-solidale style. Anche in questo caso, Holly e io siamo i più brutti di tutti, ma va bene uguale. Dopo aver consumato una sparuta cena – preparata da Holly stesso, vegano – entriamo in questo ex-convento occupato da artisti. Detta così magari vi immaginate un postaccio lasciato allo stato brado con gente fumata a ogni angolo: invece è tenuto benissimo, conserva in tutto e per tutto l’ordine e il silenzio di un convento. Al secondo piano, mi pare, ci sono gli atelier. Credo che il tutto sia gestito da una qualche associazione, e puoi fare domanda per tenere lezioni, workshops, vendere le tue opere eccetera. Uno spettacolo! Insomma, tante attività a basso costo, uno spazio a disposizione di tutti. Al Convent c’è anche la sede dell’Associazione Illustratori Australiana. Ho fatto domanda per aderire, mi hanno preso come Gold Member, però dovrei pagare un $ 200 all’anno, e per come sono messa, al momento è meglio di no. Poi non ha tantissimi membri, la pagina facebook ha sui 500 I Like contro i 5.800 dell’Associazione Illustratori italiana. Ci sono gli scrittori anche, i musicisti, e via discorrendo.
Riprendiamo il tour di esplorazione e attraversiamo un chiostro che di notte diventa un cinema all’aperto. E poi un palco nel parco per i concerti. Adesso è estate, è una meraviglia andarci, purtroppo io non potrò mai perché lavoro sempre, e siccome quando sono off sono cotta, preferisco restarmene a Brunswick, al massimo mi sposto in CBD.
Quella che da fuori appare come un cottage inglese di fine ‘700 è la Sophia Mundi Steiner School. Le scuole steineriane seguono gli ideali pedagogici di Rudolf Steiner secondo cui l’insegnamento dovrebbe provvedere a un’educazione a tutto tondo del bambino, quindi non solo nozionistica. Nel piano di studi c’è sì la matematica, le scienze, l’inglese eccetera ma c’è anche falegnameria, un sacco di teatro, canto, arte, attività che permettono all’allievo di avere un’esperienza diretta con la vita e con se stesso. Pensate che nei primi anni di scuola (dura fino 18 anni) nemmeno vengono assegnati i voti ma semplicemente compilato un quadro della personalità e delle attitudini del ragazzino. Qui se ne volete sapere di più: Pedagogia Waldorf.
Le scuole di Steiner sono anche in Italia. In quella di Milano c’era andato un mio amico dell’Università, avevo avuto un colpo di fulmine lì per lì, poi visto un giorno come si faceva trattare dalla morosa mi era passata subito.
Grande giornata con Holly Dance, grazie couchsurfing. Io continuo a dire che è l’ideale per conoscere bene un posto; sì perché se ti circondi solo di backpecker, loro sono altri disperati come te e magari la ragionano da europei eccetera, comunque, in generale, uno del posto resta uno del posto per quanto strambo ed eccentrico possa essere.

Posso ritenermi felice. Mi stanno capitando belle cose in questa Australia. Sto conoscendo un sacco di gente, capisco ogni giorno qualcosa in più di questo paese; e sto apprendendo una lingua che mette all’inizio quello che la mia mette alla fine. Se io, per esempio, dico “è passata una donna bionda, grassa e americana”, la prima informazione è che è passata una donna. Gli anglosassoni avrebbero detto invece subito che era grassa. Questo non significa che gli italiani sono più educati, anche perché l’occhio col cervello mettono insieme velocemente gruppi di parole; ma per quel miliardesimo di miliardo di secondo di differita, l’italiano fa prima il gioco delle ombre cinesi per svelarti i dettagli secondo quanto più gli piace, mentre l’inglese nasconde tutto dietro un separè dal quale qualcuno o qualcosa comincia a lanciare grosse mutande taglia XL, per scoprire solo alla fine a chi appartenevano. Oppure, per non essere ingiusti, l’italiano ti mette sotto il mento un bel piatto di polenta senza niente e il sugo ce lo versano sopra dopo, l’inglese ti dice “chiudi gli occhi e apri la bocca” e tu devi indovinare che cos’è.
Un’altra cosa che mi fa impazzire è il genere neutro per un sacco di parole. Ecco, credo che la più crudele sia friend.
«Dove te ne vai stasera?»
«Esco con friend
«Ma friend chi?»
Noi italiani, lo sappiamo bene, che di come si chiama friend non ce ne può fregar di meno. A noi interessa se è UN friend o UNA friend. E purtroppo la questio si fa delicata quando vuoi girarci attorno senza apparire troppo esplicito:
«Ma perché? Sarai mica geloso?»
L’ho chiesto agli inglesi e agli australiani, e ogni volta non fanno mai una piega e ti rispondono “si capisce dal contesto”, che in parole povere significa che non si fanno tante para a chiederti con chi diavolo esci la sera. Troia.

Il contesto, poi. Sul forum di Word Reference quando fai le domande e chiedi le cose, il contesto è un incubo, non sei mai sufficientemente esaustivo. I love you lo dici a tua madre. Non perché mi sia offesa, ma perché è vero. Potresti amarmi come una sorella, volermi un bene immenso, ma se sei fall in love with me è diverso, me lo devi dire, o non ti bacerò mai sulla bocca. E quando un giorno, ormai da Sydney, scriverò a Giuliano, il messaggio non sarà “mi sa tanto che I love you” ma “mi sa tanto che sono fall in love with you”. Ma questa è un’altra storia, prima di arrivarci c’è tempo.

lunedì 5 maggio 2014

La bestemmia, Italians (really) do it better.


Mi piace lavorare al Lounge Bar, i camerieri sono tutti ragazzi giovani, gentilissimi, uno più carino dell’altro, ragazzi e ragazze intendo. I ragazzi di Melbourne sono diversi dagli altri australiani. Indie style, per entrambi i sessi, sembra di aprire una rivista di tendenza e loro se ne spuntano fuori come sagomine da un libro pop-up. Nancy ha i capelli corti biondissimi e sulle labbra un rossetto rosso scarlatto. Le piacciono le camicie che si annodano sulla pancia, all’americana. Adele, come Roy, ha nel sangue i geni italiani di lontani bisnonni. Ha i capelli castani scuri decolorati sulle punte (un tempo blu), porta sempre gli anfibi e pantaloncini cortissimi. In generale, le australiane hanno gambe meravigliose, dritte, lunghe e sottili e anche i ragazzi sono molto belli, ma un po’ troppo patinati per i miei gusti. I loro tatuaggi sono ricercati, le barbe e le basette curate al millimetro, ancora camicie a scacchi e blue jeans col risvolto.
Un paio di loro quando rientrano dalla pausa lasciano dietro di sé un’aromatica scia di marijuana.
«Qui in Australia fumiamo tutti; è praticamente impossibile trovare qualcuno che non fumi.»
Questo è quello che mi ha detto Den una sera che ero off. Ha 19 anni, i capelli lunghi da rockettaro, trasandato casual. Mi dice che devo andare assolutamente a Fitzroy, uno dei più fichi quartieri di Melbourne. Lì sì che ci sono locali come si deve, con musica ok, gente tranquilla, tutto l’opposto di St. Kilda, per dire, piena di bogans, ovvero i bellimbusti palestrati ricoperti di tatuaggi tamarri, occhiali da sole, cappellino, canotta sbudellata sui pettorali.
Sono con Giuliano, Domenico, Genna, Tambu e altri tizi che non conosco. Rispetto alla clientela del Lounge noi siamo brutti per davvero. Siamo vestiti con poco, Giuliano ha tre maglie in croce una peggio dell’altra (che tiene compresse in un sacco dell’immondizia perché lo zaino non gli basta), io ho comprato il vestitino e le scarpe da Savers, una catena che vende roba di seconda mano. Il mio vestito non sarebbe male, il problema sono i sandali, pagati $ 9,00, che si sono smontati ancora prima di arrivare a casa dei ragazzi. Sì, sì, smontati, letteralmente: ho dovuto rimediare una vite e un cacciavite e appuntare la stringa, che circonda la caviglia, alla base in sughero.
A parte questo, Den continua a raccontarmi la sua storia. Ci stiamo parlando per la prima volta, lavando i piatti lo vedo sempre di sfuggita. Mi dice che suo papà è alcolizzato e anche lui è parecchio sensibile all’alcol e alle droghe in genere. C’è uno spot di sensibilizzazione al problema dell’alcool in cui si vede il classico barbecue e un papà che chiede al figlio di prendergli una birra. Il ragazzino dopo aver preso la birra dal frigo diventa a sua volta adulto e padre e ripete la stessa scena con suo figlio e così via:




«Noi siamo diversi dagli australiani: loro bevono per ubriacarsi, noi per il gusto di bere», fa Giuliano.
«Ma se fino a un momento fa ti lamentavi che non ti sale la sbornia!»
Forse però un po’ è vero, in Italia si beve in maniera diversa. Forse l’Australia è in questo simile all’Inghilterra, probabilmente perché la matrice è quella anglosassone, c’è un po’ la cultura dello sfinirsi. Sydney è molto inglese in questo senso, come pure St. Kilda a Melbourne. O anche, restando in CBD, c’è un locale in galleria, dentro il centro commerciale, che apre quando i negozi chiudono. È un ritrovo per backpekers, Nicoletta ci va matta, a me fa letteralmente schifo, è un troiaio, in più danno latino americano per gente che, tra l’altro, non ha la benché minima idea di cosa sia un mambo. Per carità, ho un amore ancestrale per Dirty Dancing, è il sogno di una vita ballare come Penny, la patner biondina di Johnny, ma Patrick Swayze è Patrick Swayze, il film è il film, e i tritoni della salsa sono ben lontani dall’immaginario che mi è caro.
Continuiamo la serata, senza sapere che fare. Ci piacerebbe andare in qualche club, ma per i migliori bisogna prendere il taxi, non ce lo possiamo permettere. Così, dopo aver cenato in una gastronomia cinese da $ 10 a testa, andiamo tutti a fare pipì da Mc Donald. Chi non piscia in compagnia è un ladro o una spia, ma soprattutto, dov’è il bagno delle donne? Siamo tutti un po’ su di giri e non ci formalizziamo.
Ripassiamo davanti il Lounge per tornare a casa e mi chiedo dove se ne vanno i miei colleghi quando non lavorano. Ci ho messo qualche settimana prima di scambiare due parole con loro. John, per dire, ha un accento molto forte, non lo capisco quando mi parla. Mi sono invece abituata ai cuochi della cucina e anche se lavo i piatti e sono girata di spalle, quelle che un tempo era un background di suoni umani comincia a prendere forma intellegibile. Questo per dire che una sera che Aaron e Nick facevano i soliti discorsi da uomini, un'immagine appare nel mio cervello "la devi prendere, quella troia, e sbattertela così, te la scopi finché non la sfinisci". E a quel punto mi è venuto naturale voltarmi e dire «Guys, come on!», e allora sì che sono rimasti di sasso e si sono fatti rossi in faccia come due liceali sorpresi a baciarsi nei bagni.
Evvai, la mia lingua fa progressi, sono fiera di me.
Vado in pausa, Nick mi prepara una fumante, morbidissima bistecca sanguinolenta e con quella me ne vado al bancone. Forchetta alla mia sinistra, coltello alla mia destra, mi si avvicina un uomo visibilmente ubriaco che prova ad approcciarmi. Se una ragazza è sola in un bar state pur certi che il radar di qualche maschione, specie se su di giri, la individua, e non importa se ha la faccia stravolta, china sul piatto come se non mangiasse da giorni, e la maglietta lurida.
«Quello che mangi sembra buono…»
«Mmmh, già.»
«Come ti chiami?»
«Mmmh, Caterina.»
«Carolina! Di dove sei? Sei tedesca?»
«No, mmmh, italiana.»
«Ahhh! Italia! P**** D**!»
«Eggià.»
Torno in cucina e racconto quello che mi è appena capitato. Come non detto. Gli chef si lanciano in un coro di imprecazioni e di improperi, sebbene di limitata varietà di selezione. In Italia si bestemmia un casino. Mi ricordo alle superiori, Scuola del Libro di Urbino, il preside di allora dava tre giri a De Andrè quanto a poeticità: spaziava dalla Grecia alla Mesopotamia, tirando in ballo la Vergine in diverse mise. Chiedo poi se in Australia si bestemmia, ma scappa fuori poca roba. E in questo caso sì, mi viene proprio da dirlo Italians do it better.